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Corrado De Grazia, fotografo

A farmi conoscere Corrado De Grazia è stato un amico pittore. Mi fece il suo nome, perché avevo bisogno di realizzare delle fotografie di alcuni dipinti antichi. Mi diceva che era il suo fotografo.
L'approccio fu facile. Troppo semplice.
Silenzioso, parlava solo con gli occhi. Osservava tutto e con calma, soffermandosi su ogni singola opera, come per ìnterrogarla. Un cenno di capo al dipinto, una riverenza si direbbe, e poi il muoversi meditato verso la macchina fotografica: una scatola nera, di quelle all'antica, capace di trasmettere le sensazioni dell'incerto, proprie del lavoro a soffietto. Quindi, uno sguardo fugace più volte ripetuto, ad uno spiraglio di luce; l'attesa, per le misurazioni del tempo eseguite dall'esposimetro trattenuto nel palmo della mano; e, infine, la sacralità di un rito laico: il capo sotto il panno nero, a contatto con la macchina magica.
Ricordo che era estate. Gocce di sudore grondavano dalla sua fronte, come a indicare la tensione della fatica più che gli effetti del caldo. Eppure, non una sola parola accompagnava il ronzio di un moscone che circolava liberamente nell'apparente quiete.
Passò del tempo, finché giunse la parola del taciturno Corrado, come a spiegare il senso della loquacità del suo silenzio, involucro delle trepidazioni e dell' osservazione attenta. Per ogni dipinto, l'artista era attirato dal partcolare, incuriosito dal balenare di una pennellata, meravigliato da ogni impasto cromatico. Amava il microcosmo. Un microcosmo da capogiro, per lo stupore capace di suscitare. Nel piccolo, il fotografo vedeva e vede, sognando l'universo: l'immenso dello spazio e del movimento, raccolto nel frammento, indicibile nella varietà e nell'essere.
Per ogni uomo, 'vedere' questo significa emozionarsi. L'emozione per un istante di panorama, fermato dall'immagine. L'immagine della memoria, senza tempo e senza luogo, recuperata attraverso il fotogramma dello spirito.
Il fotografo De Grazia coglieva sulla pellicola bidimensionale la profonda spazialità che il pittore aveva dato al quadro. Erano le pennellate di luce, che partite da lontano, dall’Universo di una coscienza, si erano fermate su una tela. Le sue foto costituivano. una ricerca su l'universo umano, leggibile del segno e del colore.
Questo processo di scoperta di beni immateriali, segnati nella materia, è l'iter della mostra. Questa volta, per l'artista, il centro di attenzione non è solo la mano dell'uomo ma è anche la mano della natura, dell'invisibile casualità, dell'ordine disordinato e scandito, dell'inspiegabile organizzato in sistema. Per De Grazia, è la ricerca dell'itinerario emotivo, esistente e luminoso. Mostrarlo è raccontare un vedere, un vedere oltre, un vedere dentro; è un invito a non comprendere, comprendendo; a tuffarsi nel bello inquietante, perché silenzioso e pulito. La bellezza priva del palcoscenico. La bellezza creatrice priva della materia manipolata. La bellezza originale, quella della natura. La bellezza delle sorgenti dell'essere, osservate con l'ausilio di un solo oculare. L'oculare della sensibilità, che si giova della macchina oscura, per ricreare l'universo luminoso.

Catturare l'immaginario

La macchina fotografica è una passione. E’ l'esatto contrario del gioco. Il motivo è semplice: coinvolge le energie dello spirito.
Attraverso questo occhio metallico si carpiscono immagini. Le immagini che sono dentro chi fotografa. L'esterno fissato da una pellicola è solo un pretesto, uno scatto per iniziare il viaggio interno, fatto di luminosità e di disagio. Il disagio della scoperta di un mondo inedito da raccontare. Di un microcosmo sconosciuto, valido quanto l'universo. Il macroscopico universo della persona, attimo fuggente di un'esperienza unica e irrepetibile.
Vedere attraverso un cerchio luce per catturarsi ed entrare nel ritmo dell'immaginazione. Coscienza e immagine che entrano nel ritmo del sublime, per nobilitare la materia priva di luce. Fotografare, cioè quel prendere appunti istantanei da una notte di luce, è simile all'atto della coscienza che si nobilita. Annotare la luce interna, attraverso quella esterna, fisicamente immateriale, è un atto di crescita etica. Significa riscoprire le origini del sogno, un cammino luminoso su una tavola buia. La tavola della vita, che acquista senso nell'immaginario divenuto coscienza.
Le foto scattate da Corrado De Grazia seguono il percorso della informazione, della ricerca sul passato e forse sul futuro dell'uomo. L'uomo. La parola magica, divenuta concreta attraverso la materia e la luce. Corrado insegue la prima, la fotografa, la coglie nelle sue più minuscole espressioni, per raggiungere la seconda: la luce pulsante, che non da tregua, eppure riposa. L'inquietudine è nella luce, mai simile a se stessa, che fotografa la materia, la crea, l'informa, la colora di vita, la distingue, la personalizza, la rende soffio, la liberalizza, le restituisce dignità.
La materia fotografata da Corrado è materia luce, carica di dignità e, per questo, libera. Le foto sono graffiti nella luce, percorso di un viaggio tra le ombre dell' Ade; è scavo nell'uomo macchina.
Il risultato è la veduta nuova che offre all'immaginario inesplorato, il quale prende a volare, figurando e circoscrivendo l'ancestrale coscienza visiva.
Le foto risultano così' un pretesto per costruire il pensiero (La costruzione del pensiero), per osservarlo in natura (Mondo analogico, corpo liquido) e verificarlo nella vita inanimata, ma in creazione, della micro roccia, umida e umile, per il saio dalle tonalità basse e calde.
Sono le foto della natura in origine del colore rosso di Marte, della luce accecante e, non fotografabile del sole, degli spazi incommensurabili, dei pieni e dei vuoti immensi, delle emozioni senza respiro, della parola che si perde nel vuoto delle onde cosmiche. Sono le foto del microcosmo, rifiutato dall'uomo inerme, programmato per il teatro e per l'applausometro del palcoscenico.
Corrado fotografa per dare pace e significato alla luce dello spirito. Non intende insegnare nulla a nessuno. Perché fotografare lo spirito è impresa ardua. Dolorosa. E’ un cammino, possibile per chi non è stato turbato nella freschezza delle energie primordiali: la luce.
Torna, in questo modo, una fotografia pulita, priva di ogni barocchismo e di ogni sovrapposìzìone culturale. E’ la fotografia mediterranea, quella colta dal rollino scattato e sviluppato nella camera oscura dell'uomo mediterraneo. Cioè di quell'uomo che, nel rispetto della natura incontaminata, conosceva I'asprezza dello scoglio, assaporava il salato dell'acqua marina, considerava il verde la pelle primaverile della terra, solcava con tenerezza le acque e i campi, vibrava per la resurrezione del sole, cantava il preziosismo liquido e cromato della vite, raccoglieva l'oro delle spighe di grano. Erano fotografie conservate nel repertorio interiore della coscienza divenuta cultura. Cultura, dalla parola coltivato. Il coltivato dello spirito. Il selezionato con cura, per trasmettere ciò che si è visto oltre, a seguito del superamento delle barriere.
In Corrado De Grazia, la fotografia è l'arte del contatto di due luminosità che si attirano: l'energia trasognante dell'uomo e la materia che invoca la vita e la libertà.

Pietro Amato

Domenico Guzzi
Corrado De Grazia, sperimentar guardando

“(…) Le pellicole, gli apparecchi fotografici sono soltanto delle macchine per fare fotografie: non sono capaci di vedere o pensare da soli. Naturalmente è divertente giocare con questi strumenti e fare delle foto soltanto per provarli. Però così facendo è come se passaste le giornate a lucidare la bicicletta e a usarla per fare soltanto un giretto attorno all'isolato per vedere come va bene. Una bicicletta vi consente di girare e di esplorare il mondo: l'apparecchio fotografico vi permette di ritrarre il mondo intorno a voi in modi nuovi e interessanti ( ... ) Un buon fotografo deve imparare a vedere(…)”.



Michael Langford

Si dice: "fotografare" una situazione, e s'intende che qualcuno, dicendo qualcosa, ha fatto e dato un "quadro" esatto. In quest'affermazione - il che, evidentemente, afferma nulla di rivoluzionario quanto, piuttosto, il ribadire di un paio di concetti che attraversano e costituiscono, anzi, un terreno di "tradizione" e, non di rado, di fraintendimento: sono le idee d' "essere" e d' "apparire" - vi sono due termini su cui insistere: "fotografare" e "quadro". Il primo, stando ad una generica quanto superata semplificazione, sembrerebbe esclusivamente implicare una "tecnica"; col secondo generalmente si sottintende l'esistenza d'un'immaginazione. Entrambi, pero, appartengono - risalendovi- ad una sorta di categoria superiore: topos in cui tecnica ed immaginazione, proprio, tendono a fondersi in un esito singolare e sperimentale. Poiché non v' è pittura, ad esempio, che non implichi una tecnica (oltre che un'immaginazione); così come non v'è fotografia che, a sua volta, non sottintenda, quando non sia di applicazione estemporanea ad un "oggetto", un'immaginazione. In entrambe le condizioni l'occhio è "funzionale" ed indispensabile. Ma occhio essenzialmente inteso quale strumento "critico" - il che allude, ovviamente, all'esistenza d'una cultura , mediante cui accedere ad una "verità possibile. Ne discorreva de Chirico (pur se in altro "orizzonte"), in uno dei suoi scritti del crinale d'anni Dieci e Venti ("Zeusi l'esploratore", in "Valori Plastici", anno I, n" I, 1918).
L'occhio, peraltro e come accennato, non è di per sé sufficiente se non in unione ad una precisa intenzionalità creativa (insomma: vedere un qualcosa non fa di quel qualcosa un'immagine "poetica", come si diceva un tempo; allo stesso modo in cui "leggere" non vuoi dire "saper leggere"). E, dunque, in unione ad una sapienza che abbia capacità di elevare il foss'anche "banale quotidiano" ad evento estetico. Capacità, quindi, di cogliere "oltre"; di vedere, nella selezione propriamente "critica" di tagli ed inquadrature, al di là della sola singolare apparenza.

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E’ il caso, ci sembra, di Corrado De Grazia: delle sue immagini di fotografia sperimentale, e propriamente creativa. E qui, naturalmente, ogni ragionamento potrebbe allargarsi, ed implicare non foss'altro la citazione di qualche antecedente. Poiché fotografare-sperimentando: vale a dire attribuire alla fotografia un valore diverso da quello meramente oggettivo, ma proprio sperimentale e finanche simbolico, è stato di taluni e fondamentali artisti: tra i primi che vengono in mente: Anton Giulio Bragaglia, Man Ray, John Heartfield. Ad ognuno riconoscendo un'implicazione di "tecnica" e di "immaginazione" che ha contribuito a condurre in avanti lo stesso concetto di arte. Si pensi al "fotodinamismo", alla "solarizzazione", all'utilizzo a collage, e frammentario o sovrapposizione di lastre. E, di qui, all'implicazione di "sfere teoriche" quali il Futurismo il Surrealismo il Dadaismo.
Ora, osservando quanto fotografato ed elaborato da De Grazia, e composto in grandi e plurimi "pannelli" (seguendo un po' l'idea dell'antico "polittico": unità d'immagine data alla pluralità di immagini, tutte a loro volta raccolte nell'ulteriore unità del "linguaggio"), non sembrerebbe dubbio ch'egli sia sorretto da una concreta e tutt'altro che superficiale conoscenza dell'accaduto e del trascorso. Né, peraltro, sembra potersi mettere in dubbio ch' egli sia altrettanto sorretto da una "progettualità" attualistica - la quale si rintraccia di opera in opera, e diviene elemento fondamentalmente "concettuale" - che fa di quell'intera "operazione" creativa l'esemplificazione del suo proprio "linguaggio". Si dice, in altri termini, di un valore che gli appartiene e che, in quanto tale, giunge a fame una "personalità".
L'occhio, si diceva. E la cultura, in divenire. Non per nulla De Grazia ha potuto scrivere:
"{ ... ] Proposizioni/Composizioni ottenute con il medium fotografico, desiderando essere altro che sequenze fotografiche. Vogliono sensibilità/singolarità - pittorico/monumentale. Con voluta non certezza tecnica (sfocato, mosso, ritocco, intonazione seppia .. .) al paesaggio romantico inglese di Constable, Tumer; al Dante visionario di Blake, è una scrittura fotografica che si autocontraddìce. non può essere pittura perché fotografia, e non vuole riconoscerlo. Non immune dalla lectìo contradiìtoria e per questo per me storicamente valida di Gerard Richter: (Memore di un altro Richter, Hans, magnifico cineasta). È la contraddizione insita nei linguaggi di mezzo (interlinguaggi) a creare emozioni?( ... )".
Si consideri, allora, come ogni "scatto", in essere soggettivo, sottintenda - né può diversamente - una verità oggettiva. De Grazia, allora, arriva al proprio risultato per quella che diremmo una "metamorfica" osservazione del dato "concreto". Quasi che in assenza di questo (in analogia a sintesi "simultanee") non vi fosse immagine. Tuttavia, s'egli si fermasse a tale sola e prima fase del lavoro - non vi fosse, vale a dire, l'allusa soggettività, alla cui “(…) base . spiega - c'è una sensazione poetica, un atomo di idea, quasi musicale, rapsodica (…)/" - altro non vi sarebbe che la considerazione su una serie "acritica" di istantanee, la quale avrebbe poco significato, se non in relazione ad una memoria "sentimentale" di cose e di accadimenti. E’ la sua cultura a far sì che ognuno di tali "frammenti" di immagini - e tutti assieme considerati - costituisca l'innervatura di una vera e propria condizione evocante l'esistenzialità. Per cui è, sì, l'osservato, ma in esclusivo rapporto ad una coscienza che elabora, muta, rammenta, trasforma, metamorfizza, sublima e, infine, restituisce in realtà "ulteriore". E in rapporto, ancora, ad una "traiettoria" che, nelle immagini maggiormente "movimentate", lo fa persino giungere non solo ad un colloquio a distanza e trasversale con certe esemplificazioni di storici movimenti d'inizio secolo ma, movimentate al punto da sembrar "cancellate", lo fa parimenti giungere ad un pari colloquio a distanza con certe violente "cancellazioni" di Bacon.
Si veda, ad esempio, Deprivazione sensoriale (RDT) del 2003. Che in quello scorrer "strisciato" e "strisciante" di sensazioni d'apparizioni visive debba, nella velocità (una velocità che davvero evoca la "cancellazione"), riconoscersi la realtà di un paesaggio, occorrerà che ci si soffermi per concludere in tal senso. Ma ciò non fa che confermare quel che si diceva. Che, vale a dire, alla sperimentazione di De Grazia è essenziale il "vero". Come lo è, ma in altra accezione, per Ogun's tracks (ugualmente del 2003). Opera che dice, e molto, della "materia", a prescindere dal suo essere prioritariamente testimonianza di rocce e muschi che, una volta ancora, si offrono per induzione. Quasi si desse un "pre-visto" che istradasse la condizione dell'analisi sul particolare "significante", astraendolo, quindi, dal suo "significato". E non è, anche questo, un modo per relazionare quel ch'egli fa con certa, ed alta, sperimentazione pittorica? Tutt'è intendersi che tale è il risultato finale, ma collimante, da "sun-pathos" e non un "a-priori" (che è diverso dal "pre-visto"). Com'è emotivo ed emozionante il Mondo analogico, corpo liquido (2001). L'infrangersi in schiume delle onde, che potrebbe anche fraintendersi, ad un primo e superficiale sguardo, per l'osservazione delle "fluttuanze" del cielo. E c'è, in tale soluzione, un che, ancora, di fondamentalmente "pittorico": propriamente si allude ad un'affiorante memoria culturale che pare rinviare a taluni affreschi settecenteschi in cui il cielo si "gonfia", e vi appaiono personaggi da "salvezza" o da "perdizione". Una sorta di effetto altresì da "immagine prima", da cui tutto prende avvio. Sino a giungere alla "metafisica" pura - e di per sé astratta - dell'occhio osservato ed osservante: Le voci del Pantheon (2000), ove l' "oculo" della cupola si fa emblema catalizzatore del significato di un processo dell'immaginare e dell'immaginario. Sino ad individuarlo come centralità significante dell'intera "operazione" che De Grazia pone in atto.
La realtà, dunque. La quale può persino finire per cogliersi in astrazione. Ed è, naturalmente, discorso che attiene alla "focalità" dell'osservazione. A tal punto ravvicinata, non di rado, da suggerire il proprio inverso. Come quando posiamo lo sguardo - astraendolo dal "contesto" - sul particolare di un quadro "figurativo" . ma la "purovisibilità" non leggeva gli spazi di Piero Della Francesca come quelli di Mondrian? - che ci appare quale immagine "autosufficiente" per materia, partitura spaziale e quanto altro. Mondo analogico, titola De Grazia. Che è in analogia; che non è propriamente il mondo, ma la sua rappresentazione. Meglio, la sua interpretazione che, proprio in quanto analogica, è "parallela". Così come quel "seppia ", con cui ha stampato l'immagine, nuovamente rinvia alla memoria, al "dagherrotipo": che è l'immagine "prima" del suo mezzo. E ciò, anche, sembrerebbe avere una valenza concettuale. Coscienza, appunto, di un percorso che non nasce nell'attualità, ma che nell'attualità dell'individuo trova e recupera la sua ragion d'essere. Com'è fuor di dubbio concettuale l'assemblaggio dei singoli momenti del visivo (quel che abbiamo detto retaggio del "polittico"), tale da indurre a riflessione. Continuità unitaria, nella pluralità diacronica. Possibilità di ritessere una più ampia ed articolata "verità" (attorno a cui ragionare pur in termini di "critica sociale") al cui riconoscimento sembrerebbe concorrere una suggestione poeticamente "ideologica".

Domenico Guzzi

Roma, febbraio 2004